Oltre 10mila km di distanza e un oceano separano Piacenza dall’America del Sud. Cosi lontani eppure cosi simili. A unire i popoli, in questo caso, è il cattolicesimo, la lingua di derivazione latina e la tensione ad aiutare il prossimo.
Sono 8000 gli immigrati di origine latino-americana residenti nel territorio piacentino. Le comunità più
numerose sono quella peruviana e quella ecuadoriana, inquadrate in due associazioni gemelle di stampo cattolico: “El Senor del los Milagros” e “La Virgen del Cisme”, fondate entrambe nella prima metà degli anni ’90.
Stefanie Huerta è una ragazza di origine peruviana di 23 anni, laureanda in Scienze infermieristiche all’Università di Parma. E’ emigrata con i genitori in Italia all’età di 3 anni, si è diplomata al liceo Gioia e parla un ottimo italiano, con un leggero accento piacentino. Stefanie è una millennial di seconda generazione. Ha la cittadinanza italiana e non si considera straniera. “Mi sento peruviana quanto piacentina, frequento coetanei italiani più che ragazzi del Sudamerica”.
Occhi neri e lunghi capelli corvini, Stefanie è una ragazza matura, socievole e empatica. “Ho deciso di portare il mio entusiasmo nei reparti ospedalieri, l’assistenza sanitaria ruota intorno a tante figure non necessariamente dei medici. Fare l’infermiera è una vocazione, significa essere presente e trasmettere calore ai pazienti”.
Stefanie rappresenta quelle centinaia di ragazzi di origine straniera che sono nati e cresciuti a Piacenza e si sono inseriti alla perfezione nel tessuto sociale locale. Parla tre lingue: l’italiano, lo spagnolo e l’inglese. “E’ un bagaglio culturale che non voglio disperdere, una ricchezza in più da coltivare. A casa parlo la lingua dei miei genitori, mia madre mi insegna la cucina peruviana, mio padre mi ricorda che gli indigeni del Perù sono gli eredi dell’Impero Inca e hanno una loro storia e cultura millenaria”.
Iscritta ad Avis Comunale Piacenza appena maggiorenne, Stefanie è impegnata nel sociale da quando aveva 17 anni. Prima come volontaria soccorritrice nella Pubblica Assistenza e poi come donatrice Avis e Admo. “Donare è contagioso. Ogni mattina mi chiedo cosa posso fare per la comunità”.
Diversamente da molti giovani volontari, Stefanie non ha imparato il valore della donazione fra le mura domestiche ma grazie alle attività di promozione di Avis.
Quando e perché hai cominciato a donare?
Ho cominciato a donare grazie alla mia migliore amica e alla sua famiglia. Siamo vicine di casa e siamo cresciute insieme. Da quando ero bambina ho sempre sentito parlare di Avis e di donazione. Così, appena maggiorenni, siamo andate insieme a fare l’esame di idoneità. Ci siamo fatte coraggio e non abbiamo avuto nessuna esitazione. Ma sono entrata in Avis anche grazie alle attività di sensibilizzazione che l’Associazione conduce presso le scuole e alle manifestazioni pubbliche. La presenza viva di Avis nelle piazze, nelle strade, nelle feste è fondamentale.
Che relazioni hai costruito in Avis?
Mi sono sentita subito a mio agio, con gli altri donatori e con il personale sanitario. Mi fanno sentire speciale, tutti si ricordano di me e del mio percorso anche dopo tanti anni. Io sono soprattutto una donatrice di plasma e il prelievo dura 40 minuti, il tempo necessario per conoscersi meglio, per chiacchierare con le infermiere e i volontari. In periodo di pandemia, recarsi a donare è anche un modo per socializzare. Un pretesto per incontrarsi con le amiche che donano. Invece di vederci al centro commerciale ci diamo appuntamento al centro trasfusionale. Ci mettiamo d’accordo per la prenotazione così da poterci salutare dopo la donazione, bere un caffè e mangiare una brioche insieme.
Donare è un modo per integrarsi meglio, se sei di origine straniera?
Suppongo di sì. Può essere un modo indiretto per dimostrare gratitudine alla comunità di accoglienza. Tuttavia non è il mio caso. Io mi sono integrata a prescindere, imparando la lingua e la cultura. Come molti ragazzi di seconda generazione parliamo l’italiano meglio dei nostri genitori. Io non dono in segno di riconoscenza ma per amore nei confronti della mia città, perché considero Piacenza come casa mia.
Cerchi di coinvolgere altri ragazzi peruviani ad avvicinarsi alla donazione?
Non c’è molta consapevolezza nei riguardi della donazione all’interno della comunità latino-americana. Ma tocca ai giovani invertire la tendenza. Tradizionalmente, sono i genitori a trasmettere ai figli questo valore. Nel mio caso è il contrario: sono io a diffondere la cultura del dono e a fare informazione in famiglia e dentro alla mia comunità di origine. Con gli stranieri, bisogna presentare questa opportunità diversamente. Sottolineare, per esempio, l’aspetto sanitario: donare sangue equivale a sottoporsi a dei continui controlli medici e tenere monitorata la propria salute.
Personalmente, da quando ho cominciato a donare, sono riuscita a coinvolgere almeno una decina di coetanei, compagni di scuola o di università. Il messaggio risulta più efficace con il passaparola.
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