Già donatore in Camerun, Patrice Simeu è volontario Avis e studente in Medicina. La sua ambizione: tornare in Africa per contribuire allo sviluppo del suo Paese.
Secondo gli ultimi rilevamenti statistici, i migranti a Piacenza e provincia sono 42.492, pari al 14,4 % dell’intera popolazione. Piacenza risulta la provincia con l’incidenza di residenti stranieri più marcata dell’Emilia Romagna. In città, invece, sono circa 18mila ovvero il 18% degli abitanti. Fra questi nuovi cittadini, c’è Patrice Simeu, un ragazzo di 35 anni emigrato in Italia nel 2010 e residente a Piacenza dal 2020.
Nato e cresciuto in Camerun, Patrice è originario di Bapa, un piccolo villaggio di 3000 abitanti situato lungo la linea dell’Equatore, nella regione ovest del Paese. Siccità, povertà, malattie, guerra, sono i motivi per cui questo giovane, come molti altri ragazzi africani, ha deciso di lasciare la propria terra alla ricerca di una vita migliore. Oggi Patrice fa l’operaio, studia Medicina all’Università di Parma e ha le idee chiare sul suo futuro: tornare in Africa con un’istruzione superiore e diventare un manager in ambito sanitario. Gestire un ospedale e contribuire al cambiamento della Sanità Pubblica del Camerun. “Studio Medicina ma sono particolarmente attento alle dinamiche sociali e economiche, alle possibilità di accesso all’istruzione dei giovani, ad un formazione, al lavoro e alla salute per tutti”.
Patrice vuole rinnovare l’attuale Sistema di gestione del sangue in Camerun che esclude chi è povero dalle trasfusioni. “La donazione di sangue gratuita è un indicatore di sviluppo umano, scientifico e educativo. Purtroppo nel mio Paese il livello di partecipazione volontaria alla donazione è ancora basso. Il sangue e il plasma si comprano e solo una piccola porzione della popolazione è in grado di permettersi questo “lusso”. Voglio battermi per la diffusione della cultura del dono e per affermare la gratuità di questo servizio essenziale che dovrebbe essere un diritto universale”.
Il giovane lavora, studia e dona il sangue. Parla tre lingue (francese, italiano e inglese) e conduce una vita sobria e salutare. “La maggioranza dei ragazzi africani residenti a Piacenza svolge lavori umili e duri: nelle fabbriche, nei magazzini, nei campi, negli ospedali”.
Quando e perché hai cominciato a donare sangue?
Erano gli inizi degli anni 2000 e abitavo ancora in Camerun. Avevo appena compiuto 18 anni quando mi sono proposto come donatore. Da noi è la Croce Rossa a gestire la raccolta e a fare promozione. Un giorno degli operatori dell’organizzazione hanno visitato il mio villaggio e sono rimasto folgorato dal loro messaggio semplice quanto fondamentale. Ho capito che potevo fare qualcosa per aiutare tutte quelle ragazze che incorrevano in emorragie post parto, una delle cause di mortalità più importanti nei villaggi remoti dell’Africa. Inoltre, il Paese stava attraversando un periodo di pandemia di Aids e donare il sangue equivaleva a sottoporsi a dei continui controlli medici. Infine, a livello sociale, avere in tasca la tessera di donatore suscita rispetto e ammirazione nelle persone. Non ne deriva nessun beneficio materiale ma è una sorta di status, un riconoscimento per la generosità e l’impegno a favore della comunità. Ancora oggi, tengo la carta di donatore del mio Paese nel portafoglio. Spesso la contemplo con nostalgia: mi ricorda il mio villaggio, le mie origini, la mia famiglia. E’ in parte grazie a questo vissuto se ho deciso di intraprendere gli studi in Medicina.
E in Italia come ti sei avvicinato all’Avis?
Ho scoperto dell’esistenza di Avis in ambito aziendale, a Parma. Mentre lavoravo per una ditta esterna che collaborava con la Barilla. Sono rimasto colpito dalla presenza capillare di Avis e dal suo coinvolgimento a tutti i livelli della società. In Barilla c’era persino un gruppo Avis interno che organizzava le donazioni e le feste in onore dei nuovi volontari. E’ una strategia vincente e mi sono subito candidato al dono. All’inizio ho dovuto attendere per dare il sangue perché originario di regioni considerate endemiche, soggette a epidemie. Nel frattempo ho fatto il volontario, aiutando nell’allestimento e nel trasporto dei banchetti informativi, partecipando alle iniziative pubbliche di sensibilizzazione. Era anche un’occasione per integrarmi, per conoscere persone che nonostante le differenze culturali avevano a cuore la stessa causa. Dall’anno scorso abito a Piacenza. Sono iscritto alla Comunale della città e ho già effettuato l’esame di idoneità e la prima donazione.
Per un ragazzo di origine straniera come te che cosa significa donare in Italia?
Significa costruire relazioni, favorire l’integrazione. E’ senz’altro un veicolo di inclusione sociale, una forma per ringraziare la comunità locale, un gesto d’amore verso questa terra che mi ha accolto e che mi offre la possibilità di studiare, di formarmi. Più in generale, significa lottare contro le discriminazioni, dimostrare che la sensibilità al dono e la generosità sono principi comuni a tutti i popoli e che vanno perseguiti ovunque e sempre. E’ un atto che trascende le appartenenze etniche o religiose: il colore del sangue è uguale per tutti.
Cerchi di coinvolgere altri ragazzi africani ad avvicinarsi alla donazione?
Ci provo. Talvolta è difficile perché l’Africa è un vasto continente con popoli molto diversi fra di loro. Tuttavia alcuni ragazzi hanno già seguito il mio esempio e sono consapevoli che l’Italia è un paese meraviglioso, ospitale e multiculturale. Nel mio piccolo, faccio informazione. Sulle reti sociali, sono iscritto a vari gruppi di residenti stranieri in cui spiego i benefici del dono, a livello personale e collettivo. Fare promozione all’interno della mia comunità di origine è un impegno quotidiano e significa praticare l’Intercultura, creare coesione sociale, aiutare il Paese che mi ha accolto.
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